La scatola dei peti ovvero “Del pettegolezzo”

(testo del 31 ottobre del 2011, già pubblicato in “Facciamole girare…)

C’era una volta il pettegolezzo… c’era….; perché, forse, non c’è più. O almeno, come tante altre cose, il pettegolezzo, ahimè!, non è più quello di una volta.

Nato nel chiuso di una stanza, in un corridoio angusto, in un salotto o in un cortile, il pettegolezzo, almeno com’era fino a poco tempo fa, aveva bisogno di prendere aria. Se è vero, infatti, come molti accreditati dizionari sostengono, che la sua etimologia è legata in italiano alla sfera fenomenologica del peto, ciò dimostra che esso, infarcito di parole uscite dalla bocca sbagliata, per la sua maleodorante flatulenza aveva bisogno di espandersi, con il risultato di farsi subito sentire da quanta più gente possibile, ma dissolvendosi lentamente se non più alimentato. Non so se c’è un collegamento; ma fa un po’ sorridere che i Latini chiamassero i pettegolezzi “rumores” (e non…. “odores”), fermandosi evidentemente al loro momento genetico (filologia dell’assurdo?). Ma anche “essere in odore di qualche cosa” (di mafia, di eresia, etc.) sembra avere avuto sempre a che fare con ciò che gli altri dicono di qualcuno, con quella che è l’opinione dei più (anche ad insaputa dell’interessato), insomma il pettegolezzo come “flatus vocis dall’ alito veramente cattivo”. Eppure il pettegolezzo, proprio come l’atto da cui il suo significato sembrerebbe prorompere (sic!), assolveva ad una funzione liberatoria, toglieva, è proprio il caso di dire, un peso dallo stomaco. Forse per questo esso non disdegnava le pagine dell’alta letteratura, sia che fosse praticato nei salotti della signora Marulli (Luigi Capuana) o nei cortili di Aci Trezza (Giovanni Verga).

Il pettegolezzo, infatti, in una forma divenuta canonica, rispettava dei precisi codici che erano quelli dell’oralità. Su un piccolo fondo di verità costruiva storie aperte, che l’andamento delle cose modificava. In questo senso i Malavoglia di Verga sono una straordinaria fenomenologia di questa capacità creativa del pettegolezzo; ogni nuovo avvenimento: il ritorno di Ntoni da soldato e il suo interesse per Barbara Zuppidda o i dialoghi di Mena con Alfio Mosca, interpretati dalla Vespa sua rivale in amore, forniscono in quel romanzo nuovi elementi di valutazione all’immaginario collettivo di Aci Trezza e il pettegolezzo, facendo scendere in campo tutte le rivalità e le alleanze del paese, ricostruisce un’ermeneutica dei fatti o delle parole che diventa, di volta in volta, il giudizio del gruppo sociale nei riguardi dei protagonisti; questo giudizio, paradossalmente, mentre mette totalmente a nudo i difetti di chi è indagato, restituisce tutta l’importanza che il gruppo sociale gli attribuisce e prepara una spiegazione plausibile ad ogni sua possibile futura defaillance o riscatto.

Insomma, pur nella sua ferocia, il pettegolezzo tradizionale conservava il carattere di una fiaba (c’era una volta) affidata ai bambini che ogni sera potevano far morire l’orco orribilmente o salvarlo in extremis in un sussulto di pietà. Il carattere impersonale dell’oralità proteggeva infine a sufficienza l’anonimato di chi si faceva artefice di un pettegolezzo, o comunque la sua reputazione, in un’epoca in cui non c’era il registratore; esso si presentava come una notizia spesso senza fonte, duttile, plasmabile, e si affidava alla memoria collettiva per la sua tradizione piena di varianti; la sua scarsa attendibilità o il mutamento di un suo contenuto veniva registrato dall’affievolirsi del “rumore”, dal disperdersi nell’aria del suo potenziale tossico. Il pettegolezzo era formulato in maniera tale da contenere contemporaneamente i motivi per distruggere una persona e quelli per canonizzarla e faceva meritare a tante vite per niente interessanti la trama complessa di un romanzo; la vittima insomma poteva trarre dal pettegolezzo che lo riguardava, nella versione personalizzata che gli veniva fornita, tutti gli elementi per cambiare la direzione ai suoi comportamenti e introdurre nella storia un colpo di scena per il suo “lieto fine”.

Tutto era così finché il pettegolezzo non ha deciso di trasferirsi nelle stanze e nei cortili virtuali della rete. Qui esso si è totalmente snaturato. Infatti, proprio per partire dalla rete, dice Wikipedia che “il pettegolezzo avviene quando due (o più) persone comunicano tra di loro dal vero, in un luogo reale, senza l’intermediazione di un mezzo di comunicazione di massa” (come la rete, appunto).

La rete, infatti, moltiplica il pettegolezzo all’infinito, facendone una ferita non rimarginabile. Il suo effetto globale è lì, sempre a portata di mouse, dietro la stringa impassibile di Google; al povero Ntoni dei giorni nostri non basterà più allontanarsi da Aci Trezza, la rete lo seguirà ovunque, con le esternazioni spudorate e volgari di nickname sconosciuti, che potranno linciarlo virtualmente, insultarlo, dargli ironici consigli. Ci sta dietro un errore di fondo; molti pensano che virtuale significhi irreale, e invece significa potenziale, esattamente nel senso del buon Aristotele: ciò che è potenziale, può sempre trasformarsi nel suo volto concreto, reale. Chi scrive in rete dà a volte l’impressione di non rendersi conto di stare producendo atti umani che andranno a segno una volta che qualcuno abbia l’occasione (o l’avventura) di rendere visibili sullo schermo le sue esternazioni, e che queste potranno anche essere stampate. Diceva Francesco di Sales che noi abbiamo tre vite: fisica, dell’anima e sociale; la malattia uccide il corpo, il peccato l’anima, la maldicenza la vita sociale. La maldicenza mediatica dà una prova inconfutabile del colpo mortale che ha assestato e diventa perciò inescusabile.

Le chat, i commenti ai blog o le conversazioni su facebook danno ad alcuni un profondo senso di intimità: sembra di assistere a quelle conversazioni sui treni in cui viaggiatori frustrati osano dire ai casuali compagni di viaggio ciò che hanno tenuto nascosto alle persone più care. Ne viene fuori un effetto straniante, soprattutto se queste conversazioni vengono seguite in rete o stampate e lette al di fuori del contesto in cui si sono svolte: il calore della conversazione tra amici (o tra nemici), trapiantato fuori dalla sua stanza virtuale, può ghiacciarsi nei cristalli acuminati della diffamazione (che è un reato). Spesso la convulsione dell’esternazione produce una prosa sincopata e scomposta, fatta di “vabbé, xché, vaff”, senza uno straccio di verbo al posto giusto, in cui gli interlocutori si offendono con petulanza (che venga pure da peto?) o si fanno grandi complimenti come se avessero vinto ogni volta il premio Nobel: “Pinco, sei grande!, Pallino, vaaaaiiii!” o come se fossero portatori delle verità oracolari della Pizia di Delfi sullo Stato, la Religione, la Salute e l’Economia Mondiale; e non si rendono conto di partecipare solo ad una puntata quotidiana del Grande Fratello della rete, tutti lì, perfettamente individuabili, con le loro foto migliori, in un profilo che racconta passo passo la loro piccola vita privata da uomo qualunque di Musil. L’artista Piero Manzoni aveva messo in scatola la sua merda e le aveva dato un  valore. Il web è diventata invece la scatola dei peti, concessi a tutti in regalo (ma non li avevamo chiesti) dalla gratuità del vituperio e, più della “merda d’artista”, destinati all’immortalità; la catenella della Rete, infatti, conserva tutto nelle sue fognature e la sua scatola dei peti produce una “scatologia” di “vai a cagare”, “è una merda”, “sono stronzi”, i cui odori rimarranno per sempre imprigionati e pronti a rinnovare il loro effetto gas. Così nel malcostume del nuovo pettegolezzo anche la nostra lingua si trasforma, sciacquando i suoi panni nell’acido muriatico. Agli inizi del ‘500 Bembo scrisse le sue “Prose della volgar lingua” per salvare la bellezza delle parole, visto che non si poteva salvare l’unità d’Italia. Oggi, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, di quelle prose rimane solo una volgarità inaudita, con cui gli Italiani si offendono tra loro (fuori e dentro il web); e tra essi alcuni, attenendosi al “volgare padano”, quell’unità di nuovo mettono in discussione. Davvero aveva ragione Octavio Paz quando diceva che la corruzione di un popolo corrisponde alla corruzione della sua sintassi.

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