Se non metto il dito, non credo! (Anno B, II dom. di Pasqua, Gv 20, 19-31)

Colpisce nei vangeli come, al racconto lunghissimo e lacerante della passione di Gesù, corrisponda un resoconto piuttosto scarno della sua resurrezione. Le parole che gli evangelisti usano (Gesù «si alzò in piedi», oppure «si svegliò») sono molto povere rispetto all’evento che vogliono significare, che è «il passaggio misterioso di Gesù da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno» (Persili), prima ancora che il trasferimento fisico di Gesù da un luogo ad un altro, segnalato dalla pietra ribaltata.

Anche nel racconto della prima apparizione ai discepoli il vocabolario è incerto. Così non si dice che Gesù attraversò le pareti per entrare nel cenacolo, cosa che sarebbe apparsa come una spettacolare magia, ma che «mentre erano chiuse le porte… venne Gesù e stette in mezzo» (Gv 20,19). Anche in questo caso, più che lo spostamento di Gesù da un luogo ad un altro, il racconto evidenzia la presenza di Gesù e l’esperienza che i discepoli fanno nell’incontro con lui.

Ma ancora le parole stentano. La resurrezione di Gesù infatti introduce ad una relazione nuova ed inimmaginabile che né la qualità, né la quantità delle parole riuscirà pienamente a raccontare. «Gesù infatti in presenza dei discepoli fece molti altri segni» (Gv 20,30), e Giovanni decide di non raccontarli, perché non si tratta di dimostrare la resurrezione di Gesù (impossibile) ma di introdurre ad un’esperienza emotiva e conoscitiva nello stesso tempo. L’evangelista pertanto dice che i discepoli «videro» il Signore (che nella lingua greca significa anche «conobbero») e che «gioirono».

Ma quale parola saprà mai raccontare la qualità di un’emozione? Dietro nostre espressioni come «è stato bellissimo!», oppure «sono stato colpito profondamente» si nasconde sempre la delusione di non poter rendere con le parole quello che realmente si è provato. Di questa gioia dei discepoli sappiamo che è la stessa che  l’angelo ha comunicato a Maria nell’annunciazione: «Gioisci, o piena di Grazia, il Signore è con te!» (Luca 1,28). E’ provocata dunque dall’irruzione dell’eterno nel tempo, del divino nell’umano, e prima che un’esperienza di contatto fisico è un dono soprannaturale che può essere alimentato solo dalla fede.

Ed ecco il punto cruciale! La fede. Se la fede fosse semplicemente l’esperienza fisica del soprannaturale non sarebbe fede, ma già suo compimento. E’ quello che Gesù cerca di far capire all’apostolo Tommaso che, assente alla prima apparizione, non coglie nella gioia soprannaturale dei discepoli il vero segno che dovrebbe condurlo a credere; infatti la cosa straordinaria della fede è proprio il fatto che si creda ciò che non si vede e che si fa oggetto della propria speranza e della propria gioia. Gesù stesso sulla croce ha avuto fede, perché altrimenti la sua morte sarebbe stata la recita di un copione. L’atteggiamento di Tommaso pone condizioni alla fede («se non vedo… se non metto il dito…, io non credo») ed è ciò che impedisce a molti, anche oggi, di viverne la beatitudine. Si tratta di entrare nell’ottavo giorno, ovvero di entrare, col proprio cuore, nella domenica senza tramonto.

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